Tra
la fine della guerra e i primi segni del boom economico,
l’America cambia volto. Per i ragazzini italiani degli
anni Cinquanta, i marines e il D-Day sono poco più che
un ricordo lontano: per loro, l’America è già quella di
«Gunga Din e Ringo», come Francesco Guccini avrebbe cantato
qualche decennio più tardi. L’America è un berretto alla
Davy Crockett, un gilet di pelo sul torso nudo, un paio
di calzoni rossi tenuti fermi da una striscia di cuoio.
Nel 1954, per chi ha ancora la voglia e l’età per sognare,
l’America è il vecchio West inventato da disegnatori che
non hanno mai visto da vicino un canyon o un bisonte;
è la carta povera dei fumetti: sottili, stampati alla
meglio, spesso senza colori. Ma letti come non mai, passati
di mano in mano, venduti a milioni. «Nella immensa foresta
di abeti un gigante dai lunghi capelli biondi è intento
a preparare trappole per le volpi». E’ questa didascalia,
il 3 ottobre di mezzo secolo fa, a introdurre le avventure
di un nuovo personaggio: il Grande
Blek, scritto così, all’italiana,
con quella kappa finale ad aggiungere quel tocco di naïvité
esotica che non guasta quando si deve raccontare di terre
e tempi lontani. Gli autori sono Giovanni Sinchetto, Dario
Guzzon e Pietro Sartoris, un trio torinese che da qualche
anno teneva la ribalta con le storie di «Capitan Miki»,
il più fortunato tra gli eroi bambini che in quegli anni
dominavano le edicole: adolescenti che passavano da un’avventura
all’altra, senza scuola né genitori, fabbri della loro
propria fortuna.
Il Grande Blek è un albo «piccolo», tascabile, stampato
nello stesso formato dei primi fumetti western, dal primo
Tex Willer in avanti: la «striscia» orizzontale, più economica
per gli editori che potevano sfruttare ogni centimetro
di carta sulle macchine da stampa in piano, più comoda
per i lettori, che potevano nascondere il giornalino nelle
tasche, nascondendolo a tutti: agli insegnanti convinti
che i fumetti facessero disimparare a leggere, ai parroci
e ai catechisti che ammettevano soltanto il Vittorioso
creato da Luigi Gedda, l’uomo della propaganda che nel
‘48 aveva sconfitto i comunisti alle prime elezioni del
post fascismo. I ragazzi fingevano di ascoltare. Poi,
come è sempre successo, leggevano di testa loro. D’altra
parte, cinquant’anni fa, le edicole offrivano molto di
più. Nella primavera del ‘54 Mondadori aveva lanciato
gli Albi
del Falco, in cui avrebbe pubblicato
i supereroi americani dei Quaranta, con qualche licenza
editoriale per risparmiare sui diritti d’autore.
Superman
è «Nembo Kid», Batman il «Pipistrello», con qualche problema
per gli editor italiani, costretti a cancellare la grande
S che Joe Shuster aveva disegnato sul petto del primo
e a ribattezzare «Pipimobile» la macchina che Bob Kane
si era inventato per il secondo. Il Vittorioso alternava
Jacovitti e Procopio a tavole d’avventura religiosamente
corrette. L’Intrepido raccontava di pirati, principi e
cavalieri. Topolino usciva dal ‘49 con lo stesso formato
e gli stessi protagonisti di oggi. Su tutto, però, si
ergeva il West. Nel ‘54, indiani e cowboy «erano» l’America.
«Hollywood produceva film western a decine», ricorda Sergio
Bonelli, l’editore di Tex, l’unico eroe della frontiera
sopravvissuto all’invasione di mutanti, robot e tipi strani.
«La tv, che negli Stati Uniti aveva già messo radici,
presentava decine di serial a base di pistole e cavalli:
Bonanza, Rawhide, Gun Law, Wagon Train…».
E’
quasi ovvio che quella passione si trasmettesse ai fumettisti
italiani, che pure non conoscevano la storia americana,
né avevano troppe occasioni per impararla: «Libri in italiano
non ce n’erano - continua Bonelli - . E ancor meno esisteva
una documentazione fotografica: inutile negare che quei
fumetti proponessero un Far West improbabile: i canyon
e i rilievi in cui si muoveva il primo Tex, per esempio,
erano più vicini alle Dolomiti o alla Sardegna piuttosto
che alle Rocky Mountains, fantastiche e lontane». Il Grande
Blek non si discosta dal modello della fantasia autarchica:
anche per Sartoris,
Guzzon e Sinchetto la favola
ha una funzione preminente rispetto alla Storia; i caratteri
sono a tutto tondo, evidenti fin dall’aspetto fisico dei
personaggi: i buoni, a partire da Blek, sono tutti bellissimi;
i cattivi, a cominciare da Harold, l’infame traditore
del primo episodio, sono orrendi, sporchi, spesso addirittura
deformi.
Vicino a Blek c’è Roddy, il piccolo orfano, condizione
fin troppo comune tra i lettori figli della guerra. Sullo
sfondo il dottor Occultis, l’altrettanto immancabile spalla
comica. La novità è nella scelta del Tempo. Il western,
più o meno, si colloca tutto tra il conflitto con il Messico
del 1846 e il massacro di Wounded Knee del 1890. Blek
viene prima, molto prima: siamo nel Maine, il grande Nord
dell’America, negli anni Settanta del Settecento, nel
pieno della guerra d’indipendenza. Niente ranger del Texas,
niente fortini assediati dagli Apaches, niente ranch di
bovari, ma la lotta fra i Trappers, i cacciatori dei boschi,
e le Giubbe Rosse della corona inglese. Uno sfondo sul
quale si innestano i topoi della fantasia fumettistica:
mostri e giganti, maghi e pirati; personaggi di ogni tipo
tratti da ogni possibile fonte di ispirazione: il teatro,
la letteratura popolare, il cinema, persino la piccola,
nascente televisione.
Gli stereotipi sono in agguato: gli ebrei hanno il naso
adunco, i neri sono simpatici selvaggi, i nemici inglesi
sono rozzi, ignoranti e violenti. Molti ridono, nessuno
si lamenta. «D’altra parte - racconterà Guzzon qualche
mese prima di morire - non è che nell'Italia settentrionale
di allora gli inglesi bombardatori fossero ricordati con
troppo affetto». Il fumetto, allora, era questo, modellato
sui suoi lettori: semplice ma non sciatto, con qualche
insospettabile elemento di modernità. Come l'idea del
cacciatore ecologista impersonata da Blek e dai suoi amici
trapper: «Che strani esseri sono gli uomini - dice il
protagonista nel primo episodio, esattamente mezzo secolo
fa -. Vogliono conquistare tutta la terra e il cielo,
e poi dormono su letti alti otto piedi per non toccare
la terra, e si chiudono in quelle scatole chiamate palazzi
per non vedere più il cielo…». |